Pagine a cura di Tancredi Cerne
Un peggioramento della situazione economica che dovesse portare a un calo ulteriore del fatturato delle piccole e medie imprese compreso tra il 10 e il 30% potrebbe determinare la chiusura del 70% delle pmi in Europa. È l’allarme lanciato da McKinsey dopo aver elaborato i dati di una inchiesta condotta nel mese di agosto tra 2.200 imprenditori distribuiti tra Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. La seconda ondata della pandemia sembra dunque pronta a mettere in ginocchio l’ossatura del mondo produttivo del Vecchio continente nonostante gli interventi di sostegno messi in campo dai governi.
Le più colpite, stando alle rilevazioni di McKinsey, sembrerebbero essere, tuttavia, proprio le aziende di casa nostra. Se in Germania e Francia, infatti, il 55-58% degli imprenditori aveva dichiarato di aver subito un calo nel fatturato della propria azienda a causa del coronavirus, in Italia questa percentuale è salita fino a toccare addirittura l’80% degli intervistati.
A confermare le preoccupazioni, il sentiment sulla forza dell’economia nel suo complesso, capace di supportare il momento di crisi che stanno attraversando le aziende di dimensioni medio-piccole. Il 39% degli imprenditori tedeschi sembra infatti confidare nella tenuta del sistema produttivo della Germania, in grado di fare da traino anche alle aziende più deboli. In Francia l’ottimismo cala al 20%. Ma è in Italia che si registra la percentuale più bassa con appena il 10% di piccole e medie imprese fiduciose nella capacità del sistema nazionale di far fronte alle difficoltà legate alla pandemia.
Ma quali sono i timori che affliggono maggiormente i capitani d’impresa? Stando ai dati elaborati da McKinsey, le maggiori preoccupazioni degli imprenditori italiani sembrerebbero legate all’incapacità di poter far fronte al pagamento degli stipendi dei propri dipendenti con conseguenze inimmaginabili sul fronte dei licenziamenti.
Un timore confermato dall’analisi condotta dal Cerved all’interno del rapporto Pmi 2020. «Gli impatti della pandemia sono stati mitigati finora dai provvedimenti di emergenza, come l’estensione della cassa integrazione e gli interventi sulle garanzie pubbliche. Ma quando queste misure avranno fine, gli effetti della crisi potrebbero manifestarsi in maniera assai più rilevante: senza prospettive di rilancio, molti imprenditori potrebbero licenziare o dover chiudere le proprie attività». Gli esperti del Cerved sono andati oltre, elaborando la massa di dati in loro possesso per simulare l’impatto potenziale della pandemia sul comparto delle piccole e medie imprese: ebbene, la fine della cassa integrazione, del blocco dei licenziamenti e delle garanzie sui prestiti senza la loro sostituzione con altre eventuali politiche di sostegno straordinarie potrebbe portare in Italia a una perdita di 1,4 milioni di posti di lavoro (l’8,3% degli occupati a fine 2019) tra uscita dal mercato delle società più fragili e ridimensionamento dovuto al ridotto giro d’affari.
Una cifra destinata a salire addirittura a 1,9 milioni (-11,7%) nel caso di nuovi lockdown. Così facendo, il tasso di occupazione in Italia andrebbe a ridursi di oltre due punti percentuali passando dal 44,9 al 42,5% nello scenario base, per scendere fino al 41,4% qualora si verificassero nuove chiusure. «Gli effetti della crisi appaiono particolarmente consistenti per le imprese che operano nel sistema moda, nella siderurgia, nella logistica e trasporti e in alcuni servizi alle persone», hanno aggiunto gli esperti del Cerved.
«Nei settori più colpiti, in particolare agenzie di viaggio, strutture ricettive, ristoranti, si concentrerebbe circa la metà della perdita occupazionale. Solo nella ristorazione si potrebbero avere 432 mila posti di lavoro in meno che potrebbero salire a 667 mila con nuovi lockdown».
Dal punto di vista territoriale, gli effetti maggiori si avrebbero nel Mezzogiorno con un calo occupazionale del 9,4% nel settore privato, -13% nello scenario più severo.
«Se davvero vogliamo salvare decine di migliaia di aziende italiane dobbiamo procedere senza alcun indugio alla sospensione immediata delle procedure fallimentari a carico delle piccole e medie imprese, in particolare per le istanze nate dalla crisi provocata dal nuovo coronavirus», ha avvertito Marco Cuchel, presidente dell’Associazione nazionale commercialisti secondo cui, per arginare la situazione, è necessario estendere la platea prevista dal dl Ristori a tutti i comparti dell’indotto, dell’intermediazione e del settore dei professionisti, che rischiano di rimanere esclusi da ogni forma di sussidio».
Stando ai numeri presentati da McKinsey, infatti, una azienda italiana su 10 prevede di dover chiudere i battenti tra sei mesi se la situazione non dovesse migliorare. A meno di un intervento forte da parte pubblica per tenere in vita il tessuto produttivo. «In una prima fase i governi di tutta l’Unione europea hanno introdotto misure di sostegno alla liquidità delle pmi per consentire loro di resistere alla crisi. Adesso, secondo quanto evidenziato dall’Ocse, le politiche stanno iniziando a spostarsi dagli aiuti per aiutare le aziende a sopravvivere verso quelli che consentano loro di riprendersi dopo gli effetti negativi del primo lockdown», hanno avvertito gli esperti di McKinsey. «Tuttavia, i dati evidenziati dall’indagine mostrano che un’ampia percentuale di piccole e medie imprese ha ancora necessità di misure di sostegno alla liquidità. Se è vero infatti che quasi il 20% delle pmi europee ha già fatto domanda per una qualche forma di assistenza governativa, un ulteriore 30% ha pianificato di farlo».
Dati alla mano, il 75% delle piccole imprese italiane avrebbe già fatto domanda per ottenere degli sgravi fiscali collegati per lo più al versamento dell’Iva. Il 55% si è inoltre mossa per ottenere degli aiuti dallo Stato sul fronte degli stipendi per i propri dipendenti, mentre il 76% avrebbe presentato una domanda per ricevere dal governo una compensazione monetaria legata al calo del proprio fatturato. Percentuali molto diverse rispetto a quelle registrate negli altri principali Paesi europei. Gli sgravi fiscali, per esempio, sono stati richiesti da appena il 46% delle pmi britanniche e dal 51% di quelle tedesche. Mentre i ristori economici hanno interessato il 42% delle imprese tedesche e il 55% di quelle francesi. Segno che il Covid colpisce tutti, ma in modo diverso.
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